Page 28 - RIVISTA NOIQUI MAGGIO 2024
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EmAnuEL FAtELLo
corpo, in un disperato tentativo di non partecipare del tuo stesso dolore. Poi un’iniezione, un
TU, IL MIO TUTTO torpore, due braccia che ti sostengono prima di abbandonarti sulla poltrona di quella fredda
E all’improvviso quella chiamata arrivò. La telefonata che temevi da tutta una vita e che non stanza.
avresti mai voluto ricevere, perché una vita intera non sarebbe bastata a prepararti a quelle Quindi il buio. Lento ed implacabile, ad avvolgerti, come una calda coperta.
“Mi dispiace…”
parole. Il sonno interrotto da uno squillo improvviso, gli occhi che faticano ad aprirsi, forse
più per paura che per stanchezza, il battito del cuore che accelera, il respiro che si fa affannoso, Scosse la testa per riprendersi dal dormiveglia che lo aveva sopraffatto, non cogliendo subito
quelle due parole appena udibili che per qualche interminabile secondo vagarono nella sua
la gola secca. La mano si allunga per afferrare il cellulare, il dito che quasi si oppone a premere mente, prima di precipitare sul suo cuore con tutta la loro inesorabile pesantezza; come il
quel pulsante, sapendo che una volta fatto non sarebbe più potuto tornare indietro.
“Pronto?...Si sono io…” anche se in quel momento era l’ultima persona che avrebbe voluto punto finale su una storia che non prevedeva lieto fine.
Mi dispiace. “No, no, no…” gridò il padre in un crescendo di terrore, nell’attimo stesso in cui
essere. “Mi dispiace…c’è stato un incidente…suo figlio…”.
Un figlio? La forma più grande di egoismo che un essere umano possa mai raggiungere: il afferrava il senso di quella breve frase.
L’infermiere si voltò in quel momento; non era stato lui a parlare, a emettere la condanna senza
voler trasferire le proprie aspettative ed i propri desideri su qualcun altro tanto perfetto da appello, né stava guardando lui mentre un sorriso gli illuminò il volto.
poterli realizzare; qualcuno di così potente da renderti immortale tramandando il tuo sangue;
qualcuno che per il solo fatto di vivere dimostri la tua divinità nell’elargire la vita. Seguì allora in maniera ipnotica lo sguardo, rivolto verso suo figlio.
“Mi dispiace…papà…di averti fatto preoccupare”. Glielo disse con un filo di voce, ma quel
Ogni tua certezza, ogni tua ambizione, ogni tua capacità, svaniscono però celermente in quella
sala parto, tra grida e terrore, quasi fossero statue di ghiaccio esposte al sole dell’emozione, sussurro lo investì come un boato, un’esplosione che disintegrò la diga di dolore eretta in lui
nelle ultime ore. E cominciarono a scendere le prime lacrime, avvisaglie di una piena imminente,
un’emozione troppo grande da trattenere, che ti lascia indifeso al cospetto della tua paura; e che si riversò dai suoi occhi sul corpo affaticato del figlio, quando lo cinse in un abbraccio che
ti sorprendi a pensare come la tua paura più grande sia di perdere qualcosa che ancora non ti
appartiene e che non sarà mai tua del tutto. valeva mille parole.
Caddero lacrime, paure, rimorsi, momenti perduti e attimi non vissuti, parole non dette ed altre
E ora salti in auto e parti veloce, mescolando rabbia e rimorsi che vorresti lasciare dietro di
te sulla strada assieme ai segni confusi delle gomme, e invece restano compagni fedeli di quel che mai avrebbe voluto proferire; fu una valanga, che alla fine della sua corsa, lasciò un vuoto,
che venne presto riempito da un’ondata liberatoria di serenità. E di amore.
viaggio verso l’inferno. Un amore unico, incommensurabile, eterno.
Rimorsi! Maledetti riaffiorano tutti, a ricordare che il tempo non perdona, e non fa credito a
nessuno. Quanti momenti presenti da vivere abbiamo declinato al futuro pensandolo eterno, Emanuel Fatello
senza accorgerci che invece si perdevano morendo in un passato che non avrebbe fatto ritorno.
Quella Prima di un film tanto atteso, quel derby carico di adrenalina, quella città studiata anni
prima da visitare; desideri rimandati a un domani, un domani che forse non sarebbe più sorto.
Gli abbaglianti di un’auto ed un clacson si susseguono rapidi risvegliandoti dal torpore, come
un lampo al quale implacabile fa seguito un tuono; come un flash. Ed è un flash il grembiule
del primo giorno all’asilo, o la foto davanti alla lavagna in prima elementare, o la paura delle
medie appena iniziate, o l’ansia la sera prima dell’esame di maturità affogata assieme tra birra
e spaghetti in attesa del sonno.
E ora scendi veloce dalla macchina e corri su per le scale di quell’ospedale che ha ingoiato tuo
figlio: inciampi, manca il respiro, barcolli, cadi; aspettami piccolo, sto arrivando, fermati…
Quasi sorridi, tra le lacrime che scendono, ripensando ad anni prima, mentre lo rincorrevi per
l’ennesimo danno presto dimenticato, gridandogli dietro: “Fermati, che dopo è peggio!”. Fermati,
ti prego, questa volta è peggio davvero, fermati, non ti azzardare ad andartene.
Corri tra quelle corsie, riconoscendo strazi troppo simili al tuo, grida, rassegnazione, paura;
ecco cos’è quell’odore, mescolato a disinfettante e sudore: è paura, paura di quello che è stato
e ancor più di ciò che sarà. Di quel dopo che si perde in un profondo senza ritorno né luce.
“Che sarà papà di me? Ci penso spesso, soprattutto la sera, guardando il cielo infinito. Cosa
mi aspetta? Chi incontrerò? Realizzerò i miei sogni?”. Era passato poco tempo da quella
chiacchierata, da quei tuoi interrogativi: avevi un mondo da costruire davanti a te. TIBERIU MURSA
“Cosa ti aspetta figliolo? La cosa più bella è che non lo leggerai su nessun libro, ma lo scoprirai
giorno per giorno, scrivendo tu stesso le pagine migliori della tua vita. E sarà un capolavoro!”.
E ora, entrando in quella stanza buia, il silenzio interrotto dal ritmo di un macchinario le cui
spire si perdono nel suo naso, pensavi solo che quel capolavoro si fosse interrotto, era rimasto
incompiuto e tu non avresti potuto proseguirlo. Potevi sono decretarne la fine.
Cominciasti a sentire le grida, la rabbia, la paura, accorgendoti che in realtà erano le tue; eri tu
che gridavi, ti arrabbiavi, ti spaventavi, vedendoti quasi dall’alto, distaccato, estraniato da quel
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